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Serendipity.

Pensare per casi, o come rimettere le scienze umane sulla buona strada.

Jean-Claude Passeron and Jacques Revel (eds.), Penser par cas, 2005.

“Cercherò di mostrare come, verso la fine dell’Ottocento, sia emerso silenziosamente nell’ambito delle scienze umane un modello epistemologico […] al quale non si è prestata finora sufficiente attenzione. L’analisi di questo paradigma, largamente operante di fatto anche se non teorizzato esplicitamente, può forse aiutare a uscire dalle secche della contrapposizione tra ‘razionalismo’ e ‘irrazionalismo’” [1] (Ginzburg, 1989, p. 139).

Carlo Ginzburg

“[…] Le teorie delle scienze umane sono restate o diventate di nuovo piuttosto diverse dalle teorie sviluppate nelle scienze matematiche o sperimentali; il problema epistemologico dell’autonomia dei loro principi e dei loro metodi di descrizione del mondo solleva oggi, in modo esemplare, l’interrogativo sul ruolo del pensiero delle singolarità” [2].

Jean-Claude Passeron et Jacques Revel

Penser par cas (pensare per casi) è un libro importante, che tenta di dare una soluzione originale al problema centrale delle scienze umane, vale a dire: com’è possibile operare delle generalizzazioni a partire dalla descrizione di casi singolari? Ispirandosi alle intuizioni di Carlo Ginzburg sul “paradigma indiziario” ma anche ad autori anglosassoni (Stephen Toulmin e Albert Jonsen, Charles Ragin e Howard Becker), quest’opera collettiva raccoglie i contributi di esperti di diverse discipline, e cerca di dare una nuova dignità al “caso” nelle scienze umane, sulla scia della tradizione epistemologica weberiana. Basandosi sulla ricchezza delle tradizioni casistiche (morale, giuridica, religiosa) e sulla specificità delle discipline fondate sul caso clinico (storia dell’arte, psicanalisi), gli autori elaborano una terza via fra deduzione necessaria e descrizione arbitraria, fra sperimentazione oggettiva e osservazione soggettiva, disegnando una nuova figura di razionalità, intermedia, ma perfettamente adatta alle scienze dell’uomo. Soffrendo di un complesso di inferiorità rispetto al modello egemone di razionalità proprio delle scienze esatte, le scienze umane procedono da qualche tempo a capo chino, alla ricerca di una razionalità che non è la loro. Dissipando il fantasma delle loro improbabili «leggi», il pensiero per casi propone semplicemente di riportarle sulla buona strada.thinking-by-cases-or-how-to-put-social-sciences-back-the-right-way-up-1[1]

[3].

Se il pensiero per casi è stato a lungo sottovalutato, è perché esso derogava all’esigenza prevalente di unificazione, omogeneizzazione e formalizzazione dell’argomentazione, che sembravano essere i canoni di ogni vera scienza. Così, la sua riabilitazione metodologica è recente, contemporanea alla rimessa in discussione dei paradigmi naturalistici e logici delle scienze umane. Non si tratta di coincidenze casuali. Infatti, se è vero che esistono due tradizioni del pensiero per casi, quella della casistica (morale, giuridica, religiosa), che si è sviluppata dalla filosofia e dalla retorica antica fino ai dibattiti etici contemporanei, e quella della clinica (la tradizione medica), che si è opposta e mescolata nell’Ottocento al metodo sperimentale, è per impulso di quest’ultima che il pensiero per casi ha incontrato le scienze sociali, nel momento in cui queste ultime venivano liberandosi delle ambizioni universalizzanti delle metodologie nomologiche per riscoprire il ruolo della narrazione nella spiegazione di un caso.

Cos’è la generalità del caso?

Il percorso di Passeron e Revel assume la circolarità virtuosa di una prova attraverso gli effetti. Muovendo dal postulato che il pensiero per casi regola le scienze umane, essi cercano di mostrarne la pertinenza. Preferendo una relativa ambiguità semantica ad un’impossibile definizione iniziale, gli autori scelgono di concentrare interamente la propria attenzione sulle operazioni realizzate dal pensiero per casi e sulle sue caratteristiche più specifiche. Essi ne mettono in evidenza cosi tre aspetti: il caso fa problema, esso richiede un approfondimento della descrizione, e il suo trattamento argomentativo non è agevole.

Anzitutto, per poter essere considerato un caso, non basta che un fatto sorprenda o disturbi: esso deve sollevare problemi. Infatti un caso instaura un nuovo quadro di ragionamento e ridefinisce le relazioni fra la norma e l’eccezione. Così, i casi di Freud sono domande rivolte alla pratica degli psicologi; il caso “Fustel de Coulanges” interroga la pratica degli storici (Hartog, 1988); ed il caso «Pierre Rivière» quella della psichiatria penale (Foucault, 1973). Inoltre, il caso richiede l’approfondimento della descrizione, benché questa non possa pretendere di esaurirne la singolarità. Infatti il caso resiste ad ogni tentativo di dissoluzione (per astrazione o sintesi) nell’anonimato di uno dei tipi già normati o formalizzati appartenenti al pensiero del generale o dell’universale. Quali che siano i tratti generici enumerati, è sempre un deittico (dimostrativo) ad indicare ciò che rende particolare questo caso, e che gli impedisce di essere soltanto la variante di una struttura, la specificazione di una norma, l’istanza di una legge, l’esemplificazione di una generalità. Infine, il caso sembra richiedere un trattamento argomentativo specifico. Infatti, le descrizioni di casi hanno uno statuto epistemico ambiguo, dal momento che il caso, indefinitamente descrivibile, non si presta ad un’inferenza necessaria. La questione del suo statuto argomentativo divide i pensatori da Aristotele in poi (Jonsen e Toulmin, 1988), e il disagio attraversa tanto le scienze della vita (allo stesso tempo sperimentali e storiche) quanto le scienze dell’uomo (statistiche e storiche, formali e cliniche). Infatti, il pensiero per casi sembra ammettere una semi-formalizzazione “sensibile al contesto”, ma non un regime sperimentale della prova, fondato sulla reiterazione delle osservazioni, ed ancora meno un’intuizione ineffabile. Passeron e Revel vedono nella sua rinascita l’effetto di “una rivoluzione epistemologica sotterranea” che ha allontanato le scienze umane dal realismo positivista, a beneficio di una concezione più flessibile dei rapporti fra linguaggio e mondo.

“Fare caso”: la singolarità e l’accadimento.

La prima definizione del caso, soggettiva e negativa, è quella di un effetto sorpresa. Infatti, il caso interrompe improvvisamente lo svolgimento abituale di una percezione, di un discorso descrittivo, argomentativo o prescrittivo, di una decisione, di una prova. Perciò l’identificazione di un caso come tale implica un’“esperienza di disadattamento mentale”. La differenza può essere quella di una giustapposizione di fatti improbabili o di un’aporia logica che mette in questione tutto un sistema di regole attraverso la scoperta di un apax. Infatti, “la forza di un caso non rinvia mai ad un’unica origine” (p. 16): il caso nasce spesso da un conflitto fra alcune regole e le applicazioni che dovrebbe essere possibile dedurne, e dalla situazione d’indecidibilità che ne risulta.

La singolarità che “fa caso” instaura la perplessità nel cuore del giudizio rompendo il filo della generalizzazione; essa forza l’attenzione costringendo a sospendere lo svolgimento di un ragionamento precostituito, e ad imporgli un mutamento di regime. Per questo motivo essa suscita allo stesso tempo la riflessione. Ora, riflettere su un caso significa inventare il percorso di una generalizzazione propria. Per questa ragione ogni casistica ha inventato i propri mezzi logici: casistica morale dei peccati nelle religioni, casistica dei tipi-ideali nelle opere di Max Weber, case studies della sociologia americana o della Scuola di Chicago. Al di là di questa diversità, due tratti caratterizzano un caso: la singolarità e l’utilizzazione della narrazione per descrivere questa singolarità e precisare il suo contesto d’apparizione. Il legame fra questi due aspetti costituisce precisamente il nodo logico e metodologico dell’operazione di giudizio consistente nel qualificare un avvenimento come “caso”.

Il caso come ostacolo.

Un caso non è un esempio, nel senso di una semplice illustrazione di una teoria più generale, dell’applicazione singolare di una norma, dell’istanza particolare di una legge. Infatti, in tutti questi casi l’esempio non è riconosciuto in quanto esempio singolare, bensì, al contrario, trae il proprio valore dal suo carattere qualunque. Da questo punto di vista, qualunque esempio può fare al caso, dal momento che si tratta semplicemente di illustrare concretamente dei tratti generali, e tutta l’attenzione è portata sul generale, a scapito del particolare, che ne costituisce soltanto, per così dire, la faccia negativa [4].

Pensare la positività del caso implica procedere esattamente al contrario, cercando di rivelare il valore insostituibile della singolarità. Ciò che fa sì che un caso non sia semplicemente un esempio, è il fatto che esso costituisca da sé la norma della propria verità e del proprio significato. Il caso non è una singolarità come le altre, ma una singolarità unica. A rigor di logica, indubbiamente ogni singolarità è unica; tuttavia il caso è unicamente unico, cioè è esso stesso il criterio della propria unicità. In questo senso, esso non è una particolarità che potrebbe essere superata o trascurata, ma un enigma persistente, resistente: “il caso è l’ostacolo” (p. 18). Questa è la ragione per cui il caso richiede un’interpretazione, come si nota quando si compara il procedimento ermeneutico di Freud col metodo tipologico di Charcot.

Il caso non solo richiede un’interpretazione, bensì produce anche una costruzione teorica. Lo dimostra bene la casistica, i cui ostacoli sono altresì enigmi, per quanto sempre in relazione a un corpo di regole date: il caso paradigmatico rientra perfettamente sotto la regola, ma altri casi sono coperti soltanto in parte da una norma, o da più norme allo stesso tempo. Questa tensione fra il caso ordinario e il caso straordinario, tra la regola e l’eccezione, è costituiva della casistica in ogni epoca. Di fronte a questi casi di coscienza si elabora un lavoro di riflessione, che si conclude con una decisione, ossia una costruzione problematica sensibile alle circostanze e alla singolarità. La riflessione non si pone allora nei termini di una deduzione nomologica, bensì in quelli di un’argomentazione pratica soggetta a revisione.

Rendere conto di un caso: il vincolo della narrazione.

Spiegare un caso significa necessariamente prendere in conto una situazione, un contesto. Sono le particolarità della storia, in cui si inseriscono le circostanze, a rendere singolare il caso. Il metodo clinico, che si è sempre preoccupato dei casi, testimonia quest’importanza della narrazione. Così, nella tradizione ippocratica, la storia della malattia rivela la realtà dei sintomi; ed è soltanto in un secondo momento che la comparazione delle classi cliniche permette la costituzione di tipi, ossia di regolarità esplicative. Questo procedimento singolarizzante è egualmente presente in seno ai metodi casistici (giuridici, morali, religiosi), dove la narrazione serve ad esporre la situazione e a fare comprendere come si è giunti al punto che costituisce il problema, e ciò si verifica anche nella storia dell’arte (v. qui sotto Vasari).

La dimensione narrativa è costituiva del caso in tre sensi: come forma privilegiata (se non esclusiva) dell’espressione dell’esperienza umana del tempo, come ha sottolineato Ricoeur [5]; come produzione, e non semplice restituzione, di una storia, dove lo scopo dichiarato di fare “presa sulla realtà” può passare attraverso la finzione; infine, come tratto caratteristico del modo di operare delle scienze umane [6], dove la narrazione viene a indicare la parentela dei metodi clinici e storici, che procedono attraverso la riconfigurazione orizzontale delle collezioni di casi e non attraverso la sussunzione verticale di un caso sotto una regola [7].

Il caso e la prova.

La specificità di questo luogo logico e clinico del pensiero per casi è di fondamentale importanza, tanto per le limitazioni che esso implica che per le risorse che esso porta con sé. Il suo senso profondo è che il pensiero per casi non si muove in uno spazio popperiano. Una differenza epistemologica essenziale separa, infatti, la riconfigurazione rivedibile delle generalità storiche e la “via maestra” delle generalizzazioni formali (p. 27). Tuttavia se questo scarto logico è rimasto a lungo dissimulato, ciò è avvenuto per due ragioni. Anzitutto perché lo sviluppo congiunto del metodo sperimentale e della matematizzazione dei fenomeni naturali ha eretto il regime della prova scientifica a modello esclusivo di ogni dimostrazione. Inoltre perché, arrivate tarde ed intimidite, le scienze dell’uomo hanno tentato di imitare questo modello, sforzandosi, non senza pericolose contorsioni, di ritradurre le loro interpretazioni più originali col rigore di quella forma canonica [8].

A partire dal Diciassettesimo secolo, le procedure di approfondimento di una particolarità e di generalizzazione formale si sono ignorate, e la differenza tra queste due forme di argomentazione si è accentuata. Al contrario, le casistiche non hanno subito la stessa attrazione metodologica delle scienze psicologiche o di quelle sociali. Quanto alla disciplina storica, riscoprendo recentemente la propria dimensione narrativa, essa ha esteso alle altre scienze sociali la pertinenza di un pensiero per casi.

Infine, è ben noto l’imbarazzo epistemologico della psicanalisi. Esso ha preso in Freud la forma di un’oscillazione fra la pratica ermeneutica e narrativa dello studio di casi (il pensiero per casi è, infatti, la chiave della pratica terapeutica come della riflessione clinica sull’eziologia delle nevrosi) e l’ideologia scientista che lo ha spinto, attraverso la ricerca della frequenza dei casi tipici e dei sintomi ricorrenti — che il ragionamento sperimentale prende a fondamento delle proprie prove tramite inferenze che dal particolare si elevano al generale — a costituire una nosografia e un’eziologia generale delle nevrosi [9].

È soltanto progressivamente che la psicanalisi ha saputo abbandonare questa situazione epistemologica ambigua e pensare la positività della propria specificità logica (Widlöcher, 1990). Invero, dopo avere molto esitato [10], la riflessione analitica si orienta oggi verso le teorie del caso unico.

Se si tratta l’individuo singolo o il caso unico come un terreno sul quale si moltiplicano osservazioni e misure, vi è una accumulazione di risultati, anche se di un’altra sorta rispetto all’accumulazione sperimentale in senso stretto; ed è proprio questo criterio dell’accumulazione a conferire alla psicanalisi, come del resto alla storia, alla sociologia o all’antropologia, la dignità di un lavoro scientifico, quindi di un sapere.

Scienze formali e logiche non monotone.

Oggi l’opposizione fra universalità formale e comprensione della singolarità si è attenuata. Le scienze storiche, che hanno preso coscienza del proprio pensare per casi e del fatto che la lingua naturale è il luogo dei loro ragionamenti [11], sanno di aver fatto puntualmente ricorso al formalismo, in particolare con l’inserimento di un “momento” statistico nel loro procedimento, ad esempio. Così, bisogna distinguere non tanto fra discipline, quanto piuttosto fra modi di ragionare e di argomentare. Se le scienze del contesto non sono capaci di operare una deduzione o un’induzione formale, ciò avviene fondamentalmente in quanto esse operano su casi iscritti entro contesti differenti, impossibili da scomporre in variabili pure, e la cui varietà non potrebbe essere neutralizzata da una clausola coeteris paribus: per definizione, per esse è impossibile proprio la “parità di tutte le altre condizioni”. Per questa ragione, esse non sono neppure sperimentali (il termine di “quasi-sperimentazione” è soltanto un placebo).

La razionalità argomentativa delle scienze sociali è specifica, e si può tentare di pensarla attraverso logiche non monotone. Basandosi sui principi logici meno esigenti di quelli che governano le “implicazioni strette”, queste logiche permettono una formalizzazione tenendo allo stesso tempo in considerazione la maggior e o minore forza della prova e la distanza fra contesti (inferenze normali, possibili, probabili, eccezionali, impossibili, ecc.). In questo modo la formalizzazione di ragionamenti complessi può essere portata piuttosto lontano, senza con ciò sacrificare il loro grado, il loro ordine, la loro portata e la loro necessità locale. Questa semi-formalizzazione non costituisce neppure la totalità della riflessione, ma si inserisce come momento di un’argomentazione pratica (v. l’articolo di Pierre Livet).

Il ruolo de pensiero del caso particolare in matematica è ancor più paradossale. Esso è certamente diverso dalla focalizzazione dell’attenzione su di un caso esaminato da una scienza clinica. Tuttavia esso ha comunque modo di fare caso, resistendo momentaneamente ad ogni tentativo di integrazione in un sistema chiuso di regole e di definizioni. Infatti, la singolarità del caso ha vocazione a scomparire nel simbolismo formale, ma la liquidazione di questa singolarità del caso rivela ancora qualcosa del movimento argomentativo del pensiero per casi, richiamando l’attenzione sul percorso singolare della deduzione che l’eccezione impone al ragionamento, costringendolo a una riformulazione delle premesse (v. l’articolo di Karine Chemla).

Paradigmi universali e intelligibilità locali.

Il pensiero per casi delinea una razionalità alternativa inventando una procedura di generalizzazione originale, irriducibile tanto all’induzione quanto alla deduzione necessaria.

L’ambizione scientifica del Ventesimo secolo era quella di unificare le conoscenze in ampi paradigmi dal linguaggio omogeneo, con prove e dimostrazioni ben normate, al di là della frammentazione crescente dei corpus, dei metodi e delle teorie correlativa all’accresciuta specializzazione delle discipline. Ma questo progetto ambizioso di una classificazione generale dell’esperienza è si è scontrato con l’ ostacolo della singolarità degli oggetti.

Le scienze umane hanno seguito questo doppio movimento di speranza e di delusione, ma lo statuto della prova è sempre rimasto disputato al loro interno, in ragione della doppia eredità del naturalismo delle scienze esatte e dell’ermeneutica della filosofia (e delle discipline umanistiche classiche). Tuttavia, i paradigmi concettuali di queste due tradizioni antagoniste si sono spenti, come rivela l’apparizione di tendenze epistemologiche improbabili quali il costruttivismo e l’etnometodologia. L’opera interpreta i molteplici aspetti di questa doppia decadenza come altrettanti segni di una profonda crisi la cui virtù è quella di restituire al pensiero per casi tutta la sua importanza.

Il caso e la teoria.

Le illusioni epistemologiche hanno vita difficile, e tuttavia l’abbandono del sogno unificatore non può impedire la nostalgia persistente e diffusa di una teoria generale in grado di spiegare tutti i casi. Ciò avviene in quanto l’equivalenza fuorviante fra conoscenza scientifica e conoscenza tramite concetti universali è difficile da smontare, che le scienze umane continuano a scimmiottare la ricerca dell’universale, disdegnando i contributi di una casistica accusata di essere soltanto pigrizia concettuale e “pensiero in briciole” (p. 42).

In realtà, in ogni scienza, i concetti possono esercitare un ruolo nella scoperta scientifica soltanto quando compongono insieme una griglia d’osservazione in grado di essere applicata efficacemente al mondo e si presti, allo stesso tempo, ad un’analisi logica del linguaggio di questa descrizione. A fortiori nelle scienze dell’osservazione, dove la semantica è più debole, il pensiero per casi non separa strettamente la concettualizzazione teorica e la sua messa alla prova empirica: al contrario, esso unisce riflessione e ricerca in un perpetuo andirivieni.

“L’estremo e l’ordinario. Osservazioni sul caso medievale della comunità scomparsa”,

Yann Thomas.

Esaminando la nascita del concetto giuridico di “personalità morale” nelle opere dei giuristi medievali del Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, Yan Thomas si interessa meno alle origini della finzione della personalità che alla storia dei casi che l’hanno resa possibile. Il caso del monastero privo di monaci sollevava il problema di sapere che cosa avvenisse dei diritti di una collettività della quale non rimaneva più alcun superstite, ma che un giorno avrebbe potuto essere ricostituita. Per evitare che finissero nelle mani di un signore o del fisco, si diceva che i beni del monastero spettavano ora al luogo stesso dove era situato l’edificio, ora alla persona stessa del monastero per analogia con il sistema di successione del diritto romano. Queste successioni erano personificate per assicurare la rappresentazione di un soggetto che non esisteva più (il morto), o che non esisteva ancora (l’erede non dichiarato): ciò che non aveva esistenza era rappresentato da un patrimonio personificato. La pratica “allegatoria” della giurisprudenza non obbedisce alla forza del precedente, secondo la quale ogni regola si applica ai casi identici a quello per il quale è stata enunciata per la prima volta, in conformità al modello normativista che sussume verticalmente i casi sotto le norme. In realtà essa procede per circoli interpretative, associazioni di figure in sequenza, nei limiti del corpus dei testi utilizzabili, facendo apparire delle configurazioni di oggetti eterogenei che hanno in comune il fatto di avere suscitato non tanto una stessa norma, quanto un stesso tipo di narrazione esemplare, una sorta di matrice narrativa comune.

L’autore si preoccupa soprattutto di dimostrare che la storia della personalità fittizia o morale non è mai dissociabile del caso della comunità scomparsa. Se la storia dei procedimenti e delle operazioni di tecnica giuridica s’interessa meno alle soluzioni proposte che al “movimento” che perpetua e rende ordinario un caso estremo, è perché essa scopre, dietro il dualismo delle soluzioni giuridiche, l’identità di un medesimo gesto casuale. In questo “momento preciso in cui il diritto forza un’impasse attraverso una finzione” (p. 46), infatti, si rivela un aspetto epistemologico decisivo del pensiero giuridico. Yan Thomas mostra che il processo di generalizzazione non corrisponde all’idea semplicistica che se ne può avere, e secondo la quale una soluzione dapprima formulata per un caso estremo viene in seguito estesa a delle circostanze più ordinarie, generalizzandosi progressivamente in istituzione permanente. Infatti, il caso medievale mostra che il trattamento dello straordinario e dell’ordinario non furono mai distinti, quanto invece sempre uniti: quello che si decreta in una circostanza estrema vale immediatamente, senza nessun bisogno di generalizzazione, nelle circostanze ordinarie. Nei casi-limite si colgono dunque delle astrazioni che non muovono da nessuna generalizzazione; e se il corpo sociale di una comunità religiosa o politica può essere rappresentato quando si è estinto, esso può a fortiori esserlo anche quando esso sussiste, rinnovandosi normalmente. Questa “stabilizzazione dell’eccezionale” (p. 46) non è una generalizzazione, dal momento che i casisti decidono considerando sin dall’inizio tutti i casi possibili: paradossalmente il più astratto sta sullo stesso piano del più concreto.

Questa congiunzione dello straordinario e dell’ordinario, quest’inclusione del generale nel singolare invita a collegare il fatto e il diritto piuttosto che a separarli. Non sono soltanto le occasioni in cui si dice il diritto ad essere fattuali, bensì lo è anche il significato delle decisioni, la cui forma è meno quella di una norma astratta che quella di un’“eccezione dichiarata costante” (p. 72).

“Il paradigma e il generale. Riflessioni ispirate dai testi matematici della Cina antica”,

Karine Chemla.

Le opere matematiche dell’antica Cina sono composte essenzialmente da problemi di carattere concreto e particolare, seguiti dalle risposte numeriche che richiedono e dai calcoli che li risolvono. Karine Chemla dimostra che i lettori leggevano, in queste unità di testo, dei paradigmi: essi vi vedevano degli enunciati generali di cui la estensione si determinava sulla base della procedura. La generalizzazione procede per successione di problemi particolari, mano a mano che l’algoritmo che ha permesso di risolvere il primo viene trasformato per adattarsi al successivo. Il primo caso particolare serve da “paradigma” a partire dal quale si può identificare una categoria di problemi, che le operazioni dell’algoritmo trattano in modo generale. Il caso è dunque utilizzato nella sua doppia funzione: descrizione densa ma limitata ai dati che rendono ogni caso un problema particolare, ma anche indice di tutta la serie di quelli che gli sono collegati attraverso la costruzione di un algoritmo. Lo studio suggerisce, in modo più generale, che la generalità ha costituito il maggiore valore teorico per i matematici della Cina antica.

“L’abuso. Una storia del ragionamento morale”,

Albert R. Jonsen et Stephen Toulmin.

Vengono qui riprodotti alcuni passi (il “Prologo” ed il primo capitolo) di un libro ormai classico, nato da un’esperienza particolare: durante la loro partecipazione, alla fine degli anni 70, ad una commissione nazionale americana incaricata di lavorare sulla ricerca biomedica e la tutela dei diritti e della salute delle persone, Albert R. Jonsen e Stephen Toulmin hanno scoperto che i membri erano portati a adottare un procedimento “caso per caso”, ben lontano della “tirannia dei principi”, il cui valore assoluto è applicato a tutti i casi. Il metodo casistico permetteva di dare un parere comune nonostante i membri della commissione provenissero da orizzonti assai diversi. Ne risulta un vero paradosso razionale: le conclusioni pratiche possono convergere anche se i principi sono radicalmente incompatibili. I giudizi particolari della commissione non possono dunque essere considerati come fondati su principi universali. L’ accordo, qui, non deriva dai principi, ma nasce piuttosto dal comune accordo su ciò che realmente conta in una determinata situazione. Il paradosso consiste nel fatto che è possibile trovare un accordo sulla decisione, e mai sulle ragioni dell’accordo.

Gli autori cercano di risolvere questo paradosso razionale non tanto attraverso l’irrazionalismo, bensì delineando un’altra razionalità: quella intermedia, attenuata, della ragione pratica. A partire dell’esercizio casistico effettivo della commissione americana, gli autori giungono alla conclusione che il campo della pratica richiede un tipo d’argomentazione diverso dalla deduzione. Infatti, mentre i ragionamenti teorici sono formali, atemporali e necessari, quelli pratici sono concreti (hanno un contenuto intuitivo), temporali (dipendono del contesto in cui sono impiegati) e presuntivi (mai certi). Avendo il compito d’inventare la soluzione, questi ragionamenti pratici costituiscono dei metodi di risoluzione dei casi e richiedono, di conseguenza, una descrizione completa ed esaustiva del caso. La validità del ragionamento non dipende della sua appartenenza ad una catena deduttiva, ma della nitidezza della somiglianza fra i due casi che vengono accostati tra loro. La ragione pratica non ha lo stesso rigore della ragione teorica: le sue proprietà sono altre, pur restando in tutto e per tutto razionali. Questa considerazione generale, che riguarda la ragione pratica nel suo complesso, può essere applicata al caso particolare della morale: il ragionamento per casi prova a contrario che non esiste una spinoziana “geometria morale”, bensì una semplice saggezza pratica — la “prudenza” aristotelica.

La casistica è fondata sulla convinzione che dei tipi di casi servano da referenze ultime, e che questi paradigmi criano delle presunzioni che costituisco la base per la risoluzione dei futuri casi simili. Cosi facendo, essa si appoggia inevitabilmente su di un’arte clinica della diagnosi che avvicina la morale alla medicina. Infatti, ridurre le singole decisioni mediche a implicazioni necessarie della biologia teorica, o a dei capricci personali dei singoli medici, significa mancarne la razionalità specifica. Allo stesso modo, non si coglie neppure la pertinenza della “visione pratica dell’etica” (p. 124), se la si intende nei termini di una pura geometria morale, o la si risolve nelle preferenze personali. In realtà, in entrambi i casi il ragionamento consiste nel fare ricorso a una tassonomia e procedere in modo analogico, a partire dai paradigmi o dai casi tipici, verso dei casi meno conosciuti o più confusi. Inoltre, l’inferenza clinica rende i giudizi morali e medici presuntivi e rivedibili alla luce di un’esperienza più approfondita. Infine, questa dimensione presuntiva comporta alcune divergenze ragionevoli nei due campi: se dei medici scrupolosi possono trattare dei casi ambigui in modo diverso senza suscitare delle critiche, è altrettanto ragionevole lasciare spazio, in morale, a delle divergenze di opinioni, tuttavia senza versare con ciò nel relativismo e nell’arbitrarietà delle preferenze personali.

“Collezioni, comparazioni, concertazioni. I trattamenti del caso, dalla casistica moderna alla concertazione”,

Serge Boarini.

Il paradosso della casistica sta nel fatto di avere sempre avuto l’ambizione di pensare per casi, senza tuttavia mai tentare di definire il “caso”, né i procedimenti di risoluzione dei casi esplicitati. Il merito dello studio di Serge Boarini è quello di ripercorrere le tre fasi dello sviluppo della casistica nel corso della storia. Egli illustra l’evoluzione delle proprietà allo stesso tempo descrittive e normative dell’“enunciato”, dai Dictionnaires de cas de conscience del Diciottesimo secolo fino alle odierne pratiche di concertazione, attraverso la ricerca successiva della relazione, della coerenza e dell’accordo.

Nella collezione di casi dei dizionari e delle raccolte di problemi morali, il caso, messo in relazione con altre singolarità diverse, è considerato come un’eccezione a una norma preesistente, riconosciuta e professata dalla tradizione cristiana. Ma se la casistica si fosse limitata alla singolarità del caso, la lista si sarebbe allungata a dismisura. Per ritrovare la generalità presente in ogni caso essa ha tentato di superare la singolarità, al fine di estendere la soluzione di un caso ad altri casi simili. Attraverso la comparazione di casi simili, la casistica poteva costituire dei casi tipici, paradigmatici, esemplari e immaginare di estenderne la soluzione ad altri casi di coscienza. Questa seconda figura della casistica ha soddisfatto la preoccupazione di coerenza, anche se i casisti non hanno cercato di esplicitare la propria metodologia. La terza figura della casistica consiste nel trattare il caso come vincolo, ossia come cosa che gli uomini devono trattare collettivamente, al fine di elaborare una soluzione intorno della quale si possa trovare un accordo. È questa la forma contemporanea della casistica, che privilegia la concertazione: comitati di esperti, giurie, conferenze di cittadini…

Come dice Boarini, siamo passati da una casistica in cui l’esistenza di un sistema di norme costituite (Decalogo, Patristica…) precedente la deliberazione, riduceva la riflessione a monologo, a un sistema in cui la casistica promuove un sistema di norme, le quali trovano il proprio fondamento unicamente nell’accordo raggiunto in una situazione il cui senso è legato ad una cultura particolare. Si tratta di una transizione da una casistica monologica e specializzata, a una casistica dialogica e democratica, nella quale la competenza è distribuita. Insomma, se i cittadini possono utilizzare un metodo casistico per trattare le situazioni difficili sul piano morale, non esiste più, invece, una dottrina casistica che ne fissa il modo d’impiego definitivo, nemmeno nella forma contemporanea della perizia.

“La casistica nella bioetica amercana”,

Francis Zimmermann.

L’etica applicata nel campo della ricerca biologica e della medicina è nata negli Stati Uniti, in un contesto filosofico e religioso particolare, e nella tradizione dell’utilitarismo e del pragmatismo. Per questa ragione, la procedura consistente nell’argomentare a partire dall’esame di casi difficili è profondamente diversa da quella della Commissione consultiva nazionale di etica francese, che, emettendo dei “pareri” ha elaborato una giurisprudenza. I bioeticisti hanno importato la casistica nel campo della clinica, mentre, reciprocamente, le sue applicazioni nella medicina rivitalizzavano la tradizione dei casi di coscienza. Zimmermann ripercorre lo sviluppo di questa casistica biomedica a partire dell’opera fondatrice di Joseph Fletcher, Morals and Medicine, che nel 1954 difendeva un’etica della situazione.

Se Jonsen e Toulmin avevano sottolineato la prossimità dell’argomentazione casistica con lo stile proprio della difesa, che procede per accumulazione di buone ragioni a favore del parere che si rende, essi avevano omesso di menzionare il ruolo costitutivo della narrazione (récit) nell’esposizione di un caso. Adottando gli strumenti di analisi della pragmatica del discorso, Zimmermann esamina la combinazione tra discorso riferito e narrazione in seno all’esposizione di un caso paradigmatico. La narrazione (récit) è dotata di una funzione argomentativa, ma il discorso indiretto impregna la narrazione di soggettività. La combinazione di questi due elementi è ciò che permette al destinatario del racconto [exposé] (l’uditore) di identificarsi con i protagonisti della narrazione del caso in questione. Esiste cioè un legame di complementarità fra la storia del caso e i commenti degli esperti che la seguono: narrazione delle circostanze e discussione dei principi sono come le due facce di una stessa porzione di vita (il caso). I personaggi del caso ci parlano, e il discorso degli esperti cristallizza questa esperienza in caso. Zimmermann ne trae la conclusione che questo pensiero per casi può funzionare solo a condizione che esista, fra i destinatari delle narrazione e dei commenti che costituiscono la bioetica, una comunità di parola ed uno spazio di discussione.

“Le Vite di Vasari, la storia dell’arte e la “Scienza senza nome” dei casi”,

Jean-Philippe Antoine.

I predecessori di Vasari (Dante, Boccaccio, Sacchetti) prendevano in considerazione l’esemplarità di un caso artistico senza esplicitamente accostarlo ad altri: il caso per essi costituiva una singolarità assoluta, impensabile, e soprattutto passiva, che si lasciava cogliere dall’esterno in una rete di circostanze spaziali e temporali. Al contrario, Vasari può essere considerato come il primo storico dell’arte moderna, perché le sue Vite dei più eccellenti pittori scultori e architetti mettono in campo una logica dei casi inedita, fondata sul loro accostamento e sulla comparazione delle loro differenze. Rispetto a Ghiberti che, nel suo parallelo fra l’arte antica e l’arte moderna, pensava gli eventi sotto la forma binaria del ritorno (l’antico e il nuovo), Vasari innova moltiplicando le possibilità di diversificazione. Infatti, la “differenza dei tempi” che conferisce dinamicità e mobilità alla logica vasariana dei casi, come mostrato dalle vite di Cimabue e di Giotto, è meno la manifestazione di una storia, pur ciclica, che non il principio di una serie di variazioni qualitative in cui i casi finiscono per divenire singolari, come testimoniato dal parallelo fra gli eccellenti contemporanei Michelangelo e Raffaello. La storia dell’arte non consiste nel compilare aneddoti sotto forma di cronache lineari, bensì, senza illusoriamente pretendere di uscire del tempo, nel tessere dei casi definendo e ordinando delle molteplicità.

A partire da Vasari, questa logica dei casi ha continuato a reggere le diverse vicissitudini della riflessione sull’arte. Cosi, anche se costruisce esplicitamente il suo progetto di storia dell’arte rifiutando i modelli delle Vite di Vasari (scegliendo di parlare soltanto delle cose che ha effettivamente visto), Winckelmann non ritorna comunque ad una logica antiquaria. Le collezioni romane che prende in esame non sono né l’incarnazione del bello ideale né una semplice raccolta di frammenti materiali del passato, bensì quello che permette di distinguere nel caso greco una cultura esemplare dell’arte, definita dalla congiunzione di una serie di epoche e di una serie di luoghi. La storia dell’arte non consiste dunque nel compilare aneddoti e cronache lineari, bensì sistematicità degli stili, la cui la perfezione dipende da circostanze accidentali.

Giovanni Morelli, che su questo punto Carlo Ginzburg accosta a Sherlock Holmes, ha acquisito una stupefacente capacità di perito, elaborando, attraverso un’attenzione minuziosa ai dettagli, una vera e propria scienza delle “maniere” artistiche. Henrich Wöllflin dal canto suo abbandona l’esame degli stili individuali e dei problemi d’attribuzione, sostituendo alla “storia dei nomi” una storia generale delle “forme della visione”, costituendo delle serie astratte strutturate da un’opposizione (il pittorico e il lineare, ad esempio). Si tratta ancora del medesimo gesto: costituire delle nuove serie omogenee stabilendo somiglianze inedite, distinguere, a partire da questa nuova base, nuovi casi eterogenei e singolari sin lì inavvertiti, e definire cosi delle epoche, là dove regnava il disordine relativo degli stili e delle scuole. A modo loro, è proprio questo il gesto che riproducono Aby Warburg, Erwin Panofsky, Emile Mâle…

Questa logica dei casi, allo stesso tempo storica e critica, fa intervenire due operazioni successive: una costituzione di serie omogenee a partire della percezione di somiglianze fra differenti oggetti, e una messa in evidenza dell’eterogeneità dei membri della serie, che instaura una nuova serie, basata questa volta su elementi eterogenei considerati in quanto tali. Nonostante sia propria delle scienze sociali in generale, il pensiero per casi si concentra di maniera esemplare nei discorsi sull’arte, a causa delle relazioni che uniscono l’arte e l’individuazione del singolare.

“Lo studio del caso psicologico e picanalitico (Diciannovesimo – inizio del Ventesimo secolo)”,

Jacqueline Carroy.

In linea con gli studi recenti che utilizzano l’interazionismo per interrogare di nuovo la storia della psicologia, Carroy tenta di identificare le caratteristiche proprie del caso psicologico. Anzitutto esamina il modo in cui, alla fine dell’ottocento e all’inizio del novecento s’instaurano e si generalizzano degli studi di casi che riguardano più specificamente la psiche di individui esistenti o esistiti, tanto in psicologia, come in psichiatria o in psicanalisi. Il caso obbedisce allora a un requisito realistico e non potrebbe essere inventato. La sua prima caratteristica è l’esistenza di una relazione da osservatore a osservato o da terapeuta a paziente, oppure quello di un’indagine su di sé.

L’autrice delinea in seguito una storia degli studi di casi, mostrando come essi vengano a costituire delle raccolte che privilegiano il comune o l’eccezionale (pazienti di ospedale, uomini famosi), basandosi a volte anche su delle auto-osservazioni (quaderni di sogni, raccolte di confessioni di criminali o di perversi). A questo tipo di osservazione o di auto-osservazione che suppone che l’osservatore non interferisca con l’osservato, si oppongono alcune narrazioni di terapie che prendono in considerazione la relazione fra il paziente ed il terapeuta e che le attribuiscono, secondo modalità differenti, una dimensione curativa. Sotto quest’aspetto, uno dei meriti dello studio di Carroy consiste nel riconsiderare la figura di Freud, ricollocandola in un insieme più vasto, e mostrando come egli non inventi il pensiero per casi, che invece eredita largamente da una più generale tendenza di fondo: la sua originalità consiste invece nel fatto che con la sua opera, come del resto con Janet, il caso diventa storia del caso.

Carroy si interessa infine all’ulteriore problematizzazione dei casi pubblicati, comparando la revisione delle osservazioni di Charcot, quelle di talune narrazioni di celebri sogni e quelle delle storie di casi psicanalitici (Anna O., l’uomo-lupo). Secondo l’autrice, se il caso sembra sempre potenzialmente da fare e disfare, è perché esso è basato su di una tensione insuperabile ed euristica fra sapere privato e sapere pubblico. Riprendendo questa distinzione dallo storico della fisica Gérard Holton (L’immaginazione scientifica), l’autrice suggerisce che, se lo studio del caso psicologico o psicanalitico non porta degli enunciati completamente stabilizzati, è perché esso dipende da un sapere sempre in costruzione.

“Le diverse forme di ragionamento per casi”,

Pierre Livet.

L’interesse dell’articolo di Pierre Livet risiede anzitutto nel suo sforzo di chiarimento semantico. Infatti vi sono diverse forme di ragionamento per casi, e ciascuna richiede una spiegazione specifica.

Il primo tipo concerne i ragionamenti che vanno dal generale al particolare, e viceversa. Le diverse fasi del ragionamento consistono allora nel sussumere un caso singolare sotto una regola generale o un concetto universale, nel collocarlo in una classe, ed eventualmente nel mostrare le difficoltà di queste operazioni. Il ragionamento percorre la lista di tutti i casi classificati (ad esempio mostrando che una proprietà geometrica è verificata per tale tipo di entità, poi per tale altro, poi per tutte). Determinare il caso nella sua specificità suppone un altro tipo di ragionamento, e Pierre Livet propone di accostarsi al caso singolare tanto attraverso le proprietà che esso ammette e le inferenze che permette (il caso come rinforzo), quanto attraverso quelle che esso rifiuta, considerando il caso come elemento che mette in crisi le inferenze normali (e non come il falsificatore rigido di Popper). Si può infine voler rimontare dal particolare al generale facendo del caso uno strumento di revisione delle regole: non si tratta d’induzione (che richiede di partire da più casi) in quanto si parte da un solo caso concreto, e lo scopo del risalire al generale non è quello di convalidare un’ipotesi generale, bensì quello di mostrare come una regola generale dev’essere adattata in una situazione singolare, o come delle ipotesi generali si modifichino a vicenda una l’altra in relazione al caso considerato.

Il secondo genere riguarda i ragionamenti a partire da prototipi. Si parte allora da un caso particolare ma centrale, e che presenta alcune similarità con altri casi presentati. Valutando il grado di similarità in ciascuna delle dimensioni in cui vi è somiglianza, si può definire in che misura un esemplare si avvicina al prototipo rispetto a taluni aspetti o modi di somiglianza, e se ne discosta rispetto a degli altri: lo stabilire una gradazione permette di passare dal più al meno simile.

Un prototipo è un esempio concreto sul quale si possono scoprire delle nuove proprietà; esso non viene utilizzato in tutti i sui aspetti concreti, ma relativamente “al ventaglio di casi” (p. 236) che esso intercetta per similarità parziale e non transitiva (i casi non sono necessariamente simili fra loro). Il fatto può anche essere stilizzato, ma allora su di esso non si possono scoprire delle nuove proprietà, poiché la stilizzazione riduce ciò che vi è di concreto a poche operazioni e proprietà. Mentre il prototipo è concreto e varia con il contesto, il fatto stilizzato espelle il contesto riducendolo a poche specificazioni. Mentre il prototipo non è formalizzabile, il fatto stilizzato è un modello di situazione, i cui parametri sono scelti in vista di una formalizzazione delle operazioni che si svolgono tipicamente.

I ragionamenti del terzo tipo, che procedono per revisione, normalità ed eccezione, affrontano un problema che i due primi non sono in grado di trattare: alcuni dei tratti di un determinato esempio possono entrare in conflitto con dei tratti prototipici, invece di rappresentarne soltanto dei gradi attenuati (un individuo che non è un militare può essere un obiettore di coscienza). In questo tipo di figura, se si sono prese le mosse da una regola generale, bisogna riconoscere che essa ammette delle eccezioni, e sapere quando decidere che si tratta di un’eccezione, e quando bisogna invece cambiare la regola (se le eccezioni sono troppe); se si sono prese le mosse da un prototipo, si deve definire quali assenze di tratti, e in che grado, determinano in senso positivo o negativo il giudizio d’appartenenza al campo di similarità di questo prototipo. Nei due casi, le logiche non monotone, dove l’inferenza normale perde la propria automaticità e resta sottoposta a condizione, possono essere di grande utilità, dato che forniscono dei procedimenti di revisione basati su ramificazioni, e non su rigidi incasellamenti, come nella revisione probabilistica. Questo genere di logica presuppone una nozione di contesto che distingue le inferenze normali e quelle eccezionali. Diviene così possibile una formalizzazione, che serve da criterio di coerenza di un ragionamento, e tuttavia mai da criterio di preferenza tra diverse forme di coerenza. L’errore dei casisti è stato quello di aver voluto costruire una sistema unico, costruendo delle ramificazioni di sotto-regole a partire da regole fondamentali. Ma la morale non è fissa, ed è possibile volerla modificare, e rivedere la nostra morale presente proiettandosi in una morale futura: questo problema è esaminato dall’ultimo tipo di caso.

L’ultimo tipo di ragionamento per casi, procedendo attraverso una doppia revisione, risponde al problema particolare di sapere in che modo, e in che misura, è possibile proporre una prospettiva che integra anticipatamente taluni cambiamenti di punti di vista. Per rispondere a questa sfida, bisogna considerare che la singolarità di un caso dipende dal modo in cui, da una parte, esso ci obbliga a rivedere le nostre normali anticipazioni e, dall’altra, si estende verso diversi possibili, per ordinarli in un modo tale da modificare retrospettivamente i precedenti ordini di valutazione. Questa teoria della doppia revisione (revisione che si apre a ventaglio in direzione dei differenti mondi possibili, e revisione tramite ritorno al presente) tiene ampiamente conto delle emozioni e permette di risolvere taluni paradossi razionali. Lo scopo di Livet resta quello della formalizzazione: individuando nel connettore “per” della logica lineare di Jean-Yves Girard il connettore sociale per eccellenza, sufficientemente rappresentativo del funzionamento dei simboli, egli intende farne il cuore del pensiero (rivedibile) per casi: la principale forma di ragionamento per casi consiste allora in un andare e venire fra un caso concreto, degli elementi dispersi che vengono ricondotti al caso, e la rivalutazione delle potenzialità del caso in funzione del modo di considerare le incoerenze (ossia come normali o problematiche).

“Il catasto dei saperi. Figure di consoscenza e presa sulla realtà”,

Claude Imbert.

Il fatto che le scienze umane “allineino” oggi il loro sapere sullo studi di casi, è segno di una rivoluzione epistemologica silenziosa, della quale l’autore ripercorre le origini ramificate, individuandone la posta in gioco. Il caso configura così un insieme di avvenimenti applicandovi una diversità di discipline complementari. Esso costituisce un sapere empirico che non procede per saturazione documentaria, e che resta interessato più alla giustezza del proprio approccio che alla decisione. Il caso appartiene ad una modalità giuridica di conoscenza, ma di un giudizio svincolato dal rigido fondamento kantiano dell’“esperienza”. Riprendendo qui le intuizioni di Foucault, Claude Imbert mostra che la rottura è avvenuta in riferimento alla questione centrale dell’antropologia, divisa fra la doppia preoccupazione di oggettivazione dei comportamenti e di soggettivazione di quello che conferisce loro intelligibilità e normatività.

Conclusione: l’unità del libro.

Al termine di un’opera così rilevante, restano in sospeso parecchie domande, fra cui quella dell’unità del libro. Infatti, il pensiero per casi copre un campo d’indagine assai vasto, dato che esso riguarda la morale, ma anche il diritto e le scienze formali. Non senza ambiguità. Innanzitutto perché, se il pensiero per casi opera in tutte le scienze descrittive (tra cui la medicina), nulla si dice delle scienze della terra, né della paleontologia o delle teorie dell’evoluzione, che pure integrano anch’esse preoccupazione deittica e senso della storia. In secondo luogo perché, più volte, gli autori rivolgono la propria attenzione alle scienze umane, mentre, come visto, il «pensiero per casi» copre uno spazio molto più vasto di quello coperto dalle sole scienze dell’uomo e dalle scienze sociali. Infatti, questo pensiero è all’opera non solo all’interno delle discipline descrittive (storia dell’arte, psicologia, sociologia, storia), ma anche all’interno di quelle prescrittive (diritto, morale, religione). Dov’è allora l’unità del pensiero per casi’

La risposta forse dev’essere cercata nelle opere che hanno ispirato questo libro. Riesumando il “paradigma indiziario”, Carlo Ginzburg cercava di sfuggire alla rovinosa alternativa tra razionalismo e irrazionalismo. Jonsen e Toulmin, da parte loro, fanno direttamente riferimento alla filosofia pratica d’Aristotele. Se si fa eccezione per le discipline formali, che, per ammissione stessa degli autori, rappresentano un caso assai particolare, bisogna constatare che il pensiero per casi riguarda tutti i domini dell’azione umana, del comportamento umano: infatti essa è oggetto di una sapienza etica, di una prescrizione giuridica, di una conoscenza oggettiva (storica, sociale, psicologica). Il pensiero per casi è, forse, l’altro nome della ragione pratica, questa ragione del probabile, del fragile, del provvisorio, spesso messa in ombra dalla potenza del pensiero formale, senza tuttavia che la sua logica possa mai dissolversi. Numerosi autori (Aristotele e Kant specialmente) hanno cosi insistito sulla differenza fra le due razionalità. Ciononostante, nella sua forma contemporanea (in Ricoeur o Habermas, per esempio), questa razionalità dell’azione, distinta dalla razionalità della conoscenza, non è priva di intersezioni con essa, potendosi anzi ritenere che le scienze umane occupino precisamente questo spazio, e che la loro notoria ambiguità epistemologica provenga da questo duplice statuto (mezzo teorico e mezzo pratico). All’interno di questa ragione pratica, come collocherebbero gli autori le scienze umane in relazione all’etico, al giuridico, o al politico, che sono altrettante figure che vengono chiamate in causa in quest’opera sul pensiero per casi?

Come spiegare infine, in un’opera così feconda, l’assenza di una riflessione sulla linguistica? Quando Passeron e Revel approdano ai lidi del linguaggio, è per evocare la “chiarezza formale” della linguistica, e rifiutare la sua estensione “conquistatrice” agli altri sistemi sociali attraverso un semiologismo generalizzato, o per prendere le distanze dalla rinascita delle logiche formali, accusate di avere ridato “una nuova ambizione alle scienze del linguaggio e del discorso” (p. 39). Tuttavia, in una precisazione, gli autori osservano anche che i ragionamenti delle scienze umane si fanno “in linguaggio naturale”, ed è nota l’importanza di questo punto per Passeron, senza parlare del ricorso di Zimmermann alla pragmatica del discorso. Ciò vuol dire che la materia prima del “pensiero per casi” non sarebbe suscettibile a sua volta di un pensiero per casi? Non si potrebbe al contrario applicare questo pensiero per casi alle parole stesse, persino alle loro costruzioni letterarie? Infine, non si può rimpiangere ancor più quest’assenza, dal momento che il linguaggio è molto più che un materiale o uno strumento del pensiero per casi, ma è il suo elemento stesso e, per così dire, il suo habitat?

Jean-Claude Passeron and Jacques Revel (eds.), Penser par cas, Éditions de l’Ehess, Paris, 2005.

Endnotes:
  1. [Image]: https://www.espacestemps.net/articles/thinking-by-cases-or-how-to-put-social-sciences-back-the-right-way-up/thinking-by-cases-or-how-to-put-social-sciences-back-the-right-way-up-1/

Abstract

“Cercherò di mostrare come, verso la fine dell’Ottocento, sia emerso silenziosamente nell’ambito delle scienze umane un modello epistemologico […] al quale non si è prestata finora sufficiente attenzione. L’analisi di questo paradigma, largamente operante di fatto anche se non teorizzato esplicitamente, può forse aiutare a uscire dalle secche della contrapposizione tra ‘razionalismo’ e ‘irrazionalismo’”1 (Ginzburg, ...

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Widlöcher Daniel, « Le cas au singulier », Nouvelle revue de Psychanalyse, 42, 1990.

Notes

[1] Carlo Ginzburg, “Traces” in Mythes, emblèmes, traces, Paris, Flammarion, 1989 (edizione italiana Einaudi 1986), p. 139.

[2] Jean-Claude Passeron et Jacques Revel (dir.), Penser par cas, p. 40.

[3] Salvo quando diversamente segnalato, le citazioni rinviano alle pagine dell’opera in esame.

[4] L’approccio “stilistico” di Granger cerca precisamente di cogliere l’individuale in ciò che in esso vi è ancora di generale, l’eccezionale in ciò che in esso vi è di normale, e l’irregolare in ciò che esso ha, malgrado tutto, di regolare. Si vedano sul punto le notazioni consacrate allo “stile” in Le concept d’histoire dans la philosophie de G.-G. Granger.

[5] Tracciando esplicitamente un parallelo tra giudizio psicanalitico e giudizio storico (Ricoeur, 1985), Ricoeur sottolinea come il racconto non sia un semplice mezzo di esposizione, bensì anche quanto unisce i frammenti separati di una storia, dandole un ordine e una forma. Ciò dà ragione del fatto che, in entrambi i casi, le conclusioni non siano separabili dal racconto che le sostiene; esse lo sono ancor meno se si considera che la coerenza narrativa è inseparabile dal vincolo della dimostrazione.

[6] Alcuni recenti dibattiti epistemologici vertono su questo statuto insuperabile della narrazione nelle scienze umane (v. Grenier, Grignon, Menger, 2001). Non vi sono dubbi che, per Passeron e Revel, quest’ambito di razionalità e di conoscenza delimitata dal modello e dal racconto corrisponda esattamente al campo in cui opera il pensiero per casi.

[7] Contrariamente a quanto suggerito da tutta una letteratura consacrata ai case studies (Feagin, Orum, Sjoberg, 1991), approfondire un caso significa farne la storia, e non procedere ad una miniaturizzazione che si ritiene permetta di cogliere concretamente e in modo completo un oggetto di conoscenza antropologica. A maggior ragione se si considera che l’orientamento microscopico non è privo di ambiguità, come sottolineano le riserve critiche di Revel nei confronti della micro-storia: nell’opinione dell’autore, l’aspetto interessante di questa corrente non sta tanto nella piccolezza del suo oggetto, quanto nel gesto del cambiamento di scala su cui si fonda questo passaggio al micro, rivelando allo stesso tempo tutta la propria fecondità. Insomma, forse il caso finisce per riempire il vuoto epistemologico lasciato dall’assenza nella micro-storia di una riflessione coerente sulla rappresentatività degli oggetti studiati, dissimulato dall’improbabile ossimoro “eccezionale-normale”. Su tutto questo, v. Micro-analyse et construction du social, in Revel, 1996.

[8] Questo è il rigore del “ragionamento sperimentale che basa tutta la propria forza probatoria sulla frequenza indefinitamente crescente della conferma di ipotesi sufficientemente generali per poter essere formulate al di fuori di ogni contesto, in un’ipotesi astratta o realmente” (p. 28). Qui si può riconoscere una versione del falsificazionismo popperiano. Passeron ne contesta la pertinenza rispetto al campo delle scienze umani “storiche”, in un’opera di rilievo che non ha ricevuto l’attenzione che meriterebbe, il cui titolo eloquente è: Le raisonnement sociologique. L’espace non-poppérien du raisonnement naturel (v. Passeron 1991).

[9] Passeron e Revel caratterizzano assai bene l’ambivalenza dell’epistemologia freudiana: “il linguaggio di Freud illustra lo scarto tra l’apparizione, all’inizio del secolo, di una pratica clinica basata sull’analisi di un caso, e il linguaggio metodologico che giustificava, nel suo discorso esterno, la validità delle sue conclusioni []. Si assiste ad una subordinazione epistemologica del significato dell’osservazione, che solo l’analisi clinica dei casi permette di svelare, ad un significato più generale che può essere organizzato in teoria tipologica solo riunendo questi casi nelle categorie di una classificazione, o almeno di una nomenclatura” (pp. 29-30). Certo, Freud riconosce una specificità della prova in psicanalisi, ma essa non sta “tanto nella sua rottura (rimasta implicita) con la metodologia della verifica di un’ipotesi attraverso l’osservazione ripetuta dei medesimi fatti suscettibili di confermarla o invalidarla direttamente, quanto piuttosto in una difficoltà iscritta nella stessa situazione analitica di osservazione” (p. 30).

[10] Freud ha pensato lo statuto delle inferenze causali fatte a partire da un’osservazione clinica dapprima nella forma ingenuamente induttivista della prova, quindi per analogia con la decifrazione di un testo. Tale questione è rimasta al centro delle riflessioni metodologiche riguardanti lo statuto della diagnosi e della sua efficacia in psicanalisi, e numerose altre interpretazioni della pratica analitica sono state esplorate, come quella della prova attraverso il risultato terapeutico, o attraverso l’apporto ermeneutico.

[11] V. Passeron, 1991. Ricordiamo che questo libro è a sua volta tratto da una thèse d’Etat sostenuta dall’autore a Nantes nel 1980, il cui titolo (Le parole della sociologia) indica bene l’attenzione di Passeron per il linguaggio naturale, in quanto opposto ai “linguaggi” formali. Sull’impossibilità di considerare in senso stretto i sistemi formali come linguaggi, si rinvia agli argomenti decisivi di Granger, che ho cercato di riassumere nell’articolo Granger et la Critique de la raison symbolique (maggio 2005).

Authors

Philippe Lacour

Dottorando in Filosofia presso l’Università di Aix-en-Provence 1 sotto la direzione del Prof. François Clementz. I suoi principali interessi di ricerca sono lo spazio logico della ragione pratica in generale, e delle scienze sociali più in particolare. Utilizzando alcuni sviluppi della filosofia del linguaggio, tenta di mostrate come si possa qualificare questo spazio discorsivo di “ermeneutica”. Oltre a degli articoli sull’epistemologia della storia, si è interessato all’apporto delle scienza cognitive alle scienze umane a partire dalla riflessione sulle ricerche di semantica di François Rastier.

Guido Gorgoni (aiuto alla traduzione)

Master in teoria del diritto dell’Accademia Europea di Teoria del Diritto di Bruxelles, è ricercatore in Filosofia del diritto presso l’Università di Padova. Dottorando in Filosofia del diritto, le sue ricerche portano principalmente sulla revisione del concetto giuridico di responsabilità.

Cristina D’Alessandro-Scarpari (aiuto alla traduzione)

Dopo aver ultimato un dottorato in geografia umana presso l’Université Francois Rabelais di Tours (Francia), ha recentemente completato una ricerca post-dottorale alla West Virginia University (Stati Uniti). La sua specialità è la geografia umana dell’Africa subsahariana e ha svolto ricerche sul terreno in Guinea Conakry. Fra le sue preoccupazioni più recenti sono le situazioni problematiche nei contesti africani (la protezione trasfrontaliera,lo studio dell’uso degli strumenti visivi in situazione e l’imperialismo digitale). Ha prodotto publicazioni in francese, italiano e inglese. E’ autore di Géographes en brousse (edito da L’Harmattan) ed ha curato Espaces, savoirs et incertitudes (edito da Editions Ibis Press).

Partnership

Serendipity.

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